20 giugno 2025

La storia della moda coreana: quando i capelli raccontano la stessa storia degli abiti

 

C’è qualcosa di straordinariamente affascinante nel modo in cui la Corea ha attraversato i secoli intrecciando fili di seta, cotone e ideali. La moda, in Corea, non è mai stata solo una questione estetica: è stata spesso una forma di resistenza, una dichiarazione d’identità, uno specchio delle sue ferite e delle sue rinascite. E non si parla solo di vestiti. Anche le acconciature, nella loro grazia silenziosa, hanno detto molto più di quanto sembri.

Partiamo da lontano, da quando la Corea indossava il suo hanbok con naturalezza, ogni giorno, senza nostalgia né folclore. Tra il 1875 e il 1910, nel periodo che precede l’occupazione giapponese, la semplicità era imposta dalla povertà. I colori tenui e gli accessori ridotti all’osso erano una scelta forzata. Eppure, uomini e donne conservavano con fierezza i loro chignon tradizionali, come piccoli monumenti d’orgoglio personale. Gli uomini con i loro buns ordinati, le donne con chignon bassi e raffinati. Un’eleganza antica, mai scomparsa del tutto.

Poi arrivò il buio. Tra il 1910 e il 1945, il Giappone proibì l’hanbok. Lo considerava un pericolo, un ostacolo all’assimilazione forzata. Le donne coreane iniziarono a indossare pantaloni e rossetti rossi, gli uomini abiti all’occidentale. La moda si piegava, ma non si spezzava. Anche sotto la pressione coloniale, la Corea trovava nuovi modi per esprimersi. In fondo, anche un cappello occidentale poteva diventare una forma di sfida silenziosa.

Dopo la guerra, la moda si fece sopravvivenza. Gli anni ‘40 e ‘50 furono dominati dalla moda KJP, ovvero 구제품: capi donati come aiuto umanitario, riciclati con ingegno e adattati ai gusti locali. E intanto, piano piano, l’hanbok ritornava. A ricordare che anche quando il mondo crolla, ci sono radici che nessuna bomba riesce a spezzare.

È in questo contesto che nasce la prima sfilata di moda coreana nel 1956, firmata Nora Noh, che usò attrici e Miss Corea come modelle, mancando quelle professioniste. È l’inizio di una nuova epoca. Myeongdong diventa un centro nevralgico della creatività. Tacchi alti, calze di nylon, minigonne: il cuore di Seoul iniziava a battere al ritmo della modernità.

Negli anni ’60 e ’70, la moda diventa ancora più dinamica. Lavoro e mobilità chiedono abiti pratici, le minigonne diventano simbolo di emancipazione, e le icone pop come Yoon Bok Hee ispirano nuove estetiche. Si alzano le gonne, si alleggeriscono i tessuti, si intensifica il make-up. La Corea, nel suo piccolo, comincia a parlare il linguaggio del cambiamento.

E poi arrivano i '70. E con loro, la ribellione. È il tempo dei pantaloni a zampa, degli occhiali oversize, degli orecchini a cerchio e della moda hippie usata come dichiarazione politica contro il governo conservatore. La moda si fa voce. E grida libertà.

Gli anni ’80 accolgono le contaminazioni punk e hip-hop: catene, pantaloni larghi, trucco dai colori accesi, mentre nei club si diffonde lo spirito della disco. Tutto esplode nei colori e nella voglia di distinguersi. I jeans e le t-shirt diventano l’uniforme dei giovani che vogliono appartenere a un mondo che cambia.

Ma non è finita. Anzi, è appena iniziata.

Con l’arrivo degli anni ’90 e l’ascesa dell’Hallyu Wave, la moda coreana entra nel radar globale. Gli stilisti coreani iniziano a guadagnarsi il loro posto nel mondo, con nomi come Andre Kim che diventano leggenda. Nasce la Settimana della Moda di Seoul e con lei un’esplosione di creatività. E poi, il K-pop. Gli idol non solo influenzano la musica, ma dettano legge anche nella moda. I loro look diventano virali, gli stili si moltiplicano. La Corea non guarda più il mondo: è il mondo a guardare la Corea.

E mentre tutto evolve, qualcosa resta.

L’hanbok, che un tempo sembrava un ricordo lontano, torna. Non solo come reliquia da museo, ma come moda viva e reinventata. Le sue linee antiche si trasformano in forme moderne. Le gonne si accorciano, i jeogori si stringono, i tessuti si alleggeriscono. Brand come Leesle e Kim Mi Hee ci insegnano che si può essere moderni senza dimenticare chi siamo.

Anche le acconciature tradizionali raccontano questa storia di continuità. Le trecce intrecciate delle giovani non sposate della dinastia Chosun, ornate da nastri rossi e decorazioni, oggi rivivono nei matrimoni tradizionali. Lo chignon nuziale torna, accompagnato da toque decorati con coralli e da magnifici abiti cerimoniali come l’hwarot. Persino lo stile delle gisaeng, con le sue spirali intrecciate e il suo fascino seducente, trova posto nei dipinti, nelle rivisitazioni moderne, nei sogni di chi guarda al passato con rispetto e creatività.

In fondo, l’intera storia della moda coreana è un continuo dialogo tra ciò che siamo stati e ciò che vogliamo diventare. E guardando Seoul oggi, tra passerelle all’avanguardia, idol che lanciano tendenze e turisti che passeggiano con l’hanbok rivisitato tra i templi antichi, una cosa è chiara: la Corea ha imparato a vestire la propria identità, con eleganza, coraggio e infinita fantasia.

E io, da appassionata di cultura coreana, non posso che guardarla con occhi pieni di stupore. Perché ogni stoffa, ogni treccia, ogni dettaglio nascosto dietro una linea sartoriale o una forcina, racconta una storia. E ogni storia, in Corea, merita di essere ascoltata.

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