Ci sono storie che non si raccontano con le parole, ma con i colori, le forme, le linee, le mani che modellano l’argilla o che affondano il pennello nell’inchiostro nero. La storia dell’arte coreana è una di quelle storie: silenziosa, potente, profondamente identitaria. È un viaggio attraverso secoli di dominio, di spiritualità, di lotta per l’espressione e per la memoria. È un canto visivo che si è adattato, trasformato, resistito. È bellezza che si ostina a vivere, anche quando tutto il resto viene dimenticato.
Le radici profonde: i Tre Regni
Il primo grande battito di quest’anima artistica si sente durante il periodo dei Tre Regni (57 a.C. - 668 d.C.), in cui la penisola era spartita tra Koguryŏ, Paekche e Silla. Ognuno con la propria geografia, il proprio spirito e una diversa inclinazione artistica.
Koguryŏ, nato nelle terre aspre della Manciuria meridionale, si portava addosso il carattere duro del suo territorio: poche terre coltivabili, clima rigido, ma uno spirito forte e indomito. Non stupisce quindi che la sua pittura, emersa soprattutto nei dipinti murali tombali, fosse vivace, dinamica, e profondamente legata al mondo spirituale e sciamanico. Quelle tombe, decorate con divinità, costellazioni, scene di caccia e danze, raccontano più della vita che della morte. La pittura Koguryŏ non si limitava a imitare la Cina: prendeva le influenze e le piegava alla propria identità, con pennellate energiche e colori vivi. Era una pittura di popolo, fiera, in cui anche un cavallo in corsa sembrava una dichiarazione d’esistenza.
Paekche, invece, si apriva al mondo. La sua posizione, favorevole agli scambi via mare e terra, la rendeva un crocevia di culture. L’arte Paekche era dolce, accogliente, quasi femminile. Accoglieva il buddismo, si lasciava sedurre dalle influenze cinesi meridionali, e cominciava a scolpire, a dipingere, a costruire. Le statue di Buddha con il famoso “Paekche smile” non erano solo opere d’arte: erano anime scolpite nella pietra, promesse di serenità. Anche il Giappone, in questo periodo, cominciava a ricevere dalla Corea i suoi primi semi d’arte: scrittura cinese, buddismo, vasellame. Un’eredità ancora visibile oggi nei musei e nei templi giapponesi.
Silla, il più conservatore e antico dei tre, con le sue miniere d’oro e i tumuli funerari monumentali, brillava in un modo tutto suo. Le sue corone d’oro, ritrovate nelle tombe di Kyŏngju, non erano semplici gioielli: erano rami d’albero, corna stilizzate, sogni d’eternità incastonati di giada. La sua ceramica era austera, grigia, decorata con piccole figure umane e animali, come se volesse trattenere per sempre qualcosa della quotidianità in oggetti destinati all’aldilà.
Chosŏn: l’identità e il ritorno a sé
Dopo secoli di bellezza, potere e trasformazioni, nel 1392 nacque la dinastia Chosŏn, e con essa un nuovo respiro per l’arte coreana. Seoul divenne il centro del mondo coreano, e il confucianesimo prese il posto del buddismo come credo ufficiale. La spiritualità non scomparve, ma si fece più intima, meno monumentale. La nuova estetica era sobria, controllata, austera. Eppure, in questa semplicità, l’arte coreana trovò la sua voce più autentica.
Mentre l’élite si formava all’Ufficio della Pittura, nascevano correnti diverse: quella del paesaggio vero, che rifiutava le montagne idealizzate della pittura cinese e sceglieva le vere cime coreane, come il Monte Kŭmgang, immortalato da Chŏng Sŏn con linee verticali forti e piene di carattere. Oppure quella dei dipinti di genere, portati avanti da maestri come Kim Hong-do e Sin Yun-bok, che con realismo pungente raccontavano la vita quotidiana dei contadini, degli artigiani, delle donne. Non più solo divinità e imperatori: l’arte finalmente guardava il popolo negli occhi.
Accanto a queste correnti erudite, viveva il minhwa, l’arte popolare. Dipinti colorati, pieni di simboli e sogni: tigri buffe che sorvegliavano le case, scaffali che promettevano saggezza, paesaggi che portavano fortuna. Lontani dai canoni accademici, questi quadri erano preghiere dipinte, speranze appese alle pareti di legno. Nessuno firmava queste opere, ma ciascuna portava la voce della gente comune, della Corea più vera.
In scultura, il buddismo sopravviveva nelle immagini dorate in argilla, sostenute da legno, mentre nei cimiteri reali le statue di ufficiali e animali guardavano i sepolcri con occhi sporgenti e corpi squadrati, quasi a custodire la memoria con severità.
E poi la ceramica. Il punch’ŏng, figlio decadente del raffinato celadon Koryŏ, si reinventava in forme nuove, più veloci, più grezze ma anche più vitali. I coreani trovavano bellezza nella semplicità, nell’imperfezione. E quando il bianco diventò il colore dominante — nelle porcellane sobrie, nei vasi decorati appena con blu o ferro — sembrava che l’anima coreana stesse cercando di purificarsi da secoli di invasioni e conflitti. In quel bianco lattiginoso, c’era tutta la volontà di essere semplicemente sé stessi.
Modernità: resistere e reinventarsi
Con l’arrivo del dominio giapponese nel 1910, l’arte coreana fu obbligata a guardare verso l’esterno. I pittori tradizionali venivano schiacciati dai nuovi canoni imposti, e anche la pittura a olio, inizialmente derisa, cominciava lentamente a farsi strada. Alcuni, come Ko Hŭi-dong, si arresero, ma altri resistettero, creando una nuova sintesi tra antico e moderno. L’influenza occidentale, filtrata prima dalla Cina e poi dal Giappone, cominciava a farsi sentire: prospettive, chiaroscuri, illusioni tridimensionali.
Eppure, anche in questo cambiamento, l’identità coreana non veniva mai completamente cancellata. Negli anni Cinquanta, nacque il movimento Informel, che abbracciava l’arte astratta occidentale ma con uno spirito profondamente coreano: libero, emotivo, spontaneo. Negli anni Settanta, l’arte monocromatica — fatta di bianchi, grigi, superfici vuote — cercava un’armonia che ricordava la meditazione, il silenzio, l’essenzialità. E negli anni Ottanta, l’arte Minjung Misul riportava in primo piano la protesta, la politica, la rabbia collettiva. L’arte tornava ad essere voce, denuncia, appartenenza.
L’arte coreana, nei suoi tremila anni di storia, non ha mai smesso di essere resistenza e identità. Ha parlato di dèi e di uomini, di re e di contadini, di guerra e di pace, di sogni e superstizioni. È passata dal grigio severo delle tombe al bianco purissimo delle porcellane, dai murales pieni di spiriti ai paesaggi veri, dalle ceramiche rituali ai dipinti satirici. E oggi continua a parlare. In un mondo globale, iperconnesso, dove tutto sembra appiattirsi, l’arte coreana ci ricorda che si può cambiare senza smettere di essere sé stessi. Che si può guardare al mondo senza perdere lo sguardo interiore.
Perché ogni pennellata, ogni scultura, ogni oggetto, è il battito di un popolo che ha sempre saputo trasformare la ferita in bellezza.
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