19 luglio 2025

Il cuore del cavolo: storia, anima e magia del kimchi

 

C’è qualcosa di profondamente poetico nel preparare il kimchi. Non solo perché si tratta di un cibo ricco di colori, profumi e sapori intensi, ma perché racchiude dentro di sé una storia di resistenza, comunità e identità. Non è solo una ricetta, è un gesto collettivo. Un rituale. Un ricordo che sa di mani stanche e sorrisi condivisi, di stanze piene di vapore e vasche grandi come il cuore di chi impasta foglie e memoria.

Tutto parte da un umile ortaggio: il cavolo. Originario della Cina, ha trovato nel suolo coreano un luogo dove radicarsi e diventare molto più di un semplice contorno. Da quando ha iniziato a essere coltivato sulla penisola coreana nel XVII secolo, è diventato il protagonista indiscusso del kimchi e della cucina quotidiana. Così essenziale da ispirare persino poesie.

“Spero che sarete felici. Spero che crescerete bene.”
(Ra Hee-duk, Il cuore del cavolo)

Quelle parole, incastonate in un libro di scuola media, parlano al cavolo come fosse un figlio. Perché in Corea, il cavolo è affetto, è casa, è sopravvivenza.


Un amore tra riso e fermento

Il cavolo e il riso sono una coppia leggendaria nella cultura coreana. L’aumento del consumo di riso ha portato con sé la popolarità del cavolo kimchi, e oggi, anche se la dieta coreana si è occidentalizzata, quel legame rimane vivo. Mangiare meno riso significa anche allontanarsi da quella che era una combinazione perfetta: una ciotola di riso caldo e una porzione di kimchi dal gusto pungente.

Ma il kimchi non è solo gusto. È salute. È benessere. È uno di quei cibi che curano l’anima e il corpo, come dicono molte ricerche. Ricco di antiossidanti, fibre e persino della leggendaria “vitamina U” (in realtà glutammina), il cavolo fermentato ha dimostrato proprietà antitumorali e benefici per l’apparato digerente.

E non è un caso che si dica:

“Il cavolo d’autunno si mangia a porte chiuse”,
come fosse un segreto da custodire, un lusso da proteggere.


Kimjang: l’anima collettiva del kimchi

Ma c’è un aspetto del kimchi che va oltre le proprietà nutrizionali e la cucina. Ed è quello sociale, affettivo, quasi spirituale.

Ogni novembre in Corea si celebra il kimjang, la tradizione secolare di preparare grandi quantità di kimchi da conservare per tutto l’inverno. È un momento di condivisione, di allegria, di comunità. Si vedono camion carichi di cavoli attraversare le strade, famiglie e vicini che si riuniscono sotto tendoni o nei salotti, mani immerse fino ai gomiti in vasche gigantesche piene di pasta rossa speziata.

E non è un’immagine da cartolina. È una realtà viva, riconosciuta persino dall’UNESCO come Patrimonio Immateriale dell’Umanità.

Chi ha vissuto almeno una volta un kimjang racconta lo stesso sentimento: nonostante la fatica, il corpo dolorante e le ore piegati sul pavimento, c’è qualcosa che ti resta dentro. Come un calore che non viene dal peperoncino, ma dalla presenza degli altri. Dal sapere che quel cibo non è solo tuo, ma sarà anche sulla tavola dei tuoi amici, dei tuoi vicini, di chi ami. Il kimchi, prima di essere conservato, viene regalato.

E quel gesto semplice — porgere un barattolo di kimchi fatto in casa — dice molto più di mille parole.


Kimchi: una storia millenaria che evolve

La storia del kimchi non è una linea retta, ma una stratificazione di cambiamenti, contaminazioni e ritorni alle radici. I primi kimchi, durante il periodo Silla (57 a.C. – 935 d.C.), erano semplici fermentazioni senza spezie, spesso preparate solo con acqua e sale. Con l’arrivo del peperoncino nel 1500, il kimchi iniziò a diventare rosso, piccante, profondo, simile a quello che conosciamo oggi.

Durante la guerra del Vietnam, il governo coreano si assicurò che i soldati potessero portare con sé il sapore di casa, facendo diventare il kimchi parte integrante della cultura nazionale. E quando, nel 1996, il Giappone provò a commercializzarlo con una versione addolcita (asazuke), la Corea reagì con orgoglio, chiedendo che venissero stabiliti standard ufficiali per proteggere la sua identità gastronomica.

Nel 2001 furono finalmente stabilite linee guida precise per la preparazione del baechu kimchi, a base di cavolo napa salato. Il kimchi coreano, autentico, aveva finalmente una definizione riconosciuta a livello internazionale.


Un cibo, una memoria, un’appartenenza

Oggi il kimchi è diventato globale. Si trova nei supermercati occidentali, nei ristoranti fusion, persino nei panini gourmet. Eppure, per chi l’ha preparato con le proprie mani, resta qualcosa che va oltre il cibo.

Quando sei lontano dalla Corea, come l’autore che lo prepara a Londra nella sua cucina troppo piccola, ti accorgi che manca sempre un ingrediente. Non il peperoncino. Non il cavolo. Ma la condivisione. Il sapere che, mentre tu mescoli gli ingredienti, qualcun altro fa lo stesso accanto a te. O ti allunga una foglia speziata direttamente in bocca, senza dire nulla, solo per farti sentire a casa.

Il kimchi non si fa da soli.
Si può preparare da soli, certo. Ma non si vive da soli.

E allora, anche se lo mangi a chilometri di distanza, dentro un appartamento europeo con le finestre appannate e il cuore un po’ malinconico, una parte di te torna lì, sotto il tendone del kimjang, accanto a mani sorridenti e voci che raccontano ricette, mentre la pasta rossa scivola tra le foglie come un segreto tramandato nel tempo.

Perché il kimchi non è solo una pietanza.
È memoria viva.
È cultura che fermenta lentamente nel cuore.

Fonte:

  1. https://mymileshinesmile.blogspot.com/2024/01/korean-cabbage-story.html
  2. https://mymileshinesmile.blogspot.com/2023/12/bonding-power-of-kimchi-recipe.html
  3. https://ling-app.com/ko/history-of-kimchi/

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