Quando finisce Dear Hongrang, non
restano solo immagini. Restano ferite. Ma anche possibilità.
Tutta la serie ruota intorno a una domanda che
ci tocca nel profondo: possiamo davvero
esistere, se nessuno conosce il nostro vero nome?
Il dolore più grande non è sempre quello visibile. A volte, è l’essere
ignorati. L’essere dimenticati. O peggio: essere confusi con qualcun altro,
usati, riscritti.
Jwi Ttong è il simbolo di tutti quelli che non
hanno avuto voce. Di chi è stato trattato come un contenitore vuoto. Di chi ha
dovuto reinventarsi mille volte per non sparire.
Jae Yi, invece, è la memoria. Quella parte di noi che si rifiuta di lasciar
andare, anche quando il mondo intero le dice che è inutile sperare.
Insieme, si salvano. Non perché si completano,
ma perché si riconoscono.
E forse è questo il messaggio più grande di Dear Hongrang: che l’identità non ci è data, ma costruita ogni giorno.
Attraverso le relazioni, le scelte, il coraggio di guardarsi in faccia anche
quando fa male.
Chi ama davvero, vede oltre la maschera.
Chi soffre davvero, impara a resistere.
Chi è stato ferito, può ancora guarire. Ma solo se qualcuno lo chiama per nome.
Il suo vero nome.
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