Sappiamo quasi tutto dei re, delle regine e dei principi della dinastia Joseon, almeno se ci basiamo su ciò che ci hanno raccontato decine di sageuk – quei drama storici che trasformano la Storia in spettacolo, tragedia e sogno. Ma c’è una categoria che, nel passaggio tra documenti e fiction, sembra svanita come la nebbia all’alba: le principesse.
No, non quelle stile Disney. Le principesse di Joseon non avevano vestiti rosa, castelli da favola o lieto fine assicurato. La loro vita era un equilibrio precario tra adorazione paterna, doveri familiari, rigidità sociale e... un’inquietante solitudine. Eppure erano figlie del re. Eppure erano lì. Solo che la storia – e i drama – spesso le hanno dimenticate.
Un inizio in punta di piedi
Quando nasceva una figlia nella Casa Reale di Yi, il suo arrivo veniva registrato con attenzione maniacale: giorno, ora, persino il momento del parto. Tutto annotato nel Genealogico Reale. Ma tra guerre e invasioni, molti di questi documenti sono andati persi. A volte, l’annuncio ufficiale arrivava solo in occasione di un banchetto, un dono dei ministri o una cerimonia speciale. Come a dire: sì, è nata una principessa... ma non è che sia poi così importante.
Eppure, almeno nei primi anni, la sua vita sembrava quella di una piccola divinità domestica. Il padre – il Re – la adorava, la madre o la concubina reale la cullava, e intorno a lei si muoveva una piccola corte fatta di nutrici, dame e ancelle devote.
Ah, e poi c’era il vaso della placenta.
Sì, hai letto bene.
Secondo una tradizione iniziata in epoca Goryeo, la placenta del neonato reale veniva lavata con acqua (cento volte!) e con vino, avvolta in panni bianchi e deposta in una giara speciale. Questa giara veniva poi seppellita in un luogo ritenuto favorevole, spesso lontano dal palazzo. Un rituale delicato, poetico quasi, per augurare una vita lunga e serena. Ma che spesso, purtroppo, non bastava.
Una vita appesa a un filo
L’infanzia nella Joseon non era facile, nemmeno per le principesse. Febbri, morbillo, inverni troppo freddi, estati troppo afose. Il tasso di mortalità infantile era spaventoso, e molte di loro morivano giovanissime. Come la principessa Jeongso, primogenita di Sejong il Grande, morta a soli 13 anni, lasciando dietro di sé un padre affranto e una cerimonia funebre che riempì le pagine degli Annali.
Eppure, se sopravvivevano all’infanzia, le attendeva una nuova tappa: il matrimonio. Un evento che non aveva nulla a che vedere con l’amore.
Sposarsi “verso il basso”: l’arte del Haga
Le principesse non sposavano principi. Non sposavano nemmeno alti funzionari. Perché? Perché il rischio era troppo alto: un suocero troppo potente, un marito troppo ambizioso… e la stabilità del trono poteva vacillare. Perciò il consorte veniva selezionato con cura tra giovani educati ma di rango medio. Il loro unico compito? Sposare una principessa. E poi... fare molto poco.
Già, perché il marito della principessa non poteva fare carriera politica, non poteva prendere concubine durante la vita della moglie, e se lei moriva, nemmeno risposarsi. Un ruolo d’onore, certo, ma anche una gabbia dorata. E se osavano deviare da queste regole? Potevano ritrovarsi nella bufera, come accadde più volte nel corso della dinastia.
Ma anche le principesse pagavano il prezzo di questa unione. Dovevano lasciare il palazzo, vivere con il marito (o con i suoceri) e adattarsi a una nuova casa, spesso enorme, spesso lussuosa… ma mai casa loro davvero.
Amate, ma dimenticate
C’era chi veniva coccolata fino all’eccesso, come la principessa Hwapyeong, a cui Yeongjo voleva regalare una residenza pari a un palazzo reale (lei rifiutò). E poi c’erano quelle che venivano trascurate, ignorate, persino umiliate.
Come la principessa Hyojeong, la cui madre morì presto. Suo marito prese come concubina una delle sue ancelle, la trattò male, la lasciò morire senza chiamare il medico. E lei, povera Hyojeong, difese quell’uomo fino alla fine. Come se fosse più importante la fedeltà che la dignità. Forse lo era, in quella società.
E poi c’era la principessa Hwasun, che, dopo la morte del marito, smise di mangiare. Morì di fame per seguirlo nell’aldilà. Il padre, il re, provò a fermarla. La implorò. Ma lei non si fermò. Morì 14 giorni dopo il marito. E solo molti anni dopo fu riconosciuta come “donna virtuosa”. Il cancello rosso della sua fedeltà esiste ancora, testimone silenzioso di un amore che oggi ci lascia più inquieti che commossi.
Tra palazzo e prigione
Alcune principesse furono vere testimoni della Storia. Come Jeongmyeong, che visse sotto sei re diversi. Fu imprigionata, osservata, temuta, rispettata. Non aveva voce in politica, ma la sua esistenza era politica. E poi c’era Hwawan, coinvolta in intrighi, deposta, esiliata. Eterna sorella, eterna figlia, eterna pedina.
Molte di loro finirono i giorni nella solitudine, vedove, senza figli, sepolte non con la famiglia reale ma con il marito. E se morivano nubili, finivano in cimiteri separati, quasi “invisibili”.
Eppure… avevano vissuto.
La dolce prigione dell’essere principessa
Essere una principessa Joseon non significava avere potere. Significava portare un titolo, vivere una vita tracciata da altri, ed essere allo stesso tempo adorata e ignorata. Ogni sorriso, ogni abito, ogni cerimonia, ogni parola era regolata da un rituale, da un’etichetta, da una tradizione.
Avevano la bellezza della calligrafia imparata dai genitori. I giardini più belli di tutta Seoul. I regali del re. Le dame a loro servizio. Ma non la libertà di scegliere.
Alcune furono fortunate. Altre no. Alcune amarono. Altre furono solo amate. Alcune sopravvissero. Molte no.
Ma tutte – tutte – hanno lasciato tracce. Nei documenti, nei vasi, nei cancelletti rossi. Nelle pagine dimenticate degli annali. E ora anche nei nostri cuori di spettatori romantici, che forse – per un attimo – riusciremo a guardare un drama storico e chiederci: dov’è la principessa? Qual è la sua storia?
Fonte:
- https://thetalkingcupboard.com/2020/05/20/joseon-princess-life/
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