29 luglio 2025

Quando i K-drama non finiscono più: tra finali aperti, formati ridotti e seconde stagioni in agguato

C’era un tempo in cui i K-drama finivano. E finivano davvero. Sedici episodi, una storia completa, un inizio, uno sviluppo e una fine. Nessuna stagione 2, nessuna attesa prolungata, nessun cliffhanger lasciato lì a galleggiare per mesi o anni. I K-drama si presentavano come piccoli gioielli autoconclusivi. E io li ho iniziati ad amare proprio per questo.

Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato. E Shark: The Storm ne è la prova più recente.

Il finale dell’ultima stagione – intenso, enigmatico, pieno di sottotesti – non chiude nulla davvero. E non perché non sia stato scritto bene, anzi. Ma perché lascia volutamente aperta una porta. Un sorriso scambiato tra due personaggi in una cella, una tensione non risolta, un’eco narrativa che sembra dire: "E se ci fosse ancora qualcosa da raccontare?".

Ed è così che ci ritroviamo tutti a cercare risposte negli articoli, nei webtoon originali, nelle interviste, e nelle nostre stesse teorie. “Ci sarà una stagione 3?” è la domanda che rimbalza ovunque. Ma non è solo Shark. Sta diventando la norma.


I nuovi formati e l’addio al numero 16

Parallelamente, anche il formato classico da 16 episodi sta lentamente scomparendo. Sempre più spesso ci troviamo davanti a drama da 6, 8, massimo 12 episodi. E a dirla tutta… io lo trovo un bene.

Perché? Perché finalmente spariscono i filler. Quegli episodi stiracchiati, le scene ridondanti, le sottotrame inutili inserite solo per allungare il brodo e rispettare un formato ormai obsoleto. I nuovi drama sono più densi, più rapidi, più mirati. La narrazione è spesso più pulita e concentrata. E soprattutto, non hai più la sensazione che qualcuno ti stia facendo perdere tempo.


Il fascino (e il rischio) delle seconde stagioni

Certo, la possibilità di una seconda stagione ha un potere magnetico. Ti spinge a interpretare ogni scena in mille modi. Ti lascia in sospeso. Ti fa sperare. Ti fa tornare, con trepidazione, mesi dopo.

Ma è proprio lì che scatta la trappola.

Perché questa nuova tendenza, che strizza sempre più l’occhio al modello statunitense – quello delle stagioni infinite, del “finché funziona andiamo avanti” – potrebbe col tempo tradire l’essenza stessa del K-drama come lo conoscevamo.

In Corea, per ora, la qualità è ancora altissima. Anche le seconde stagioni (ancora rare) sono scritte e prodotte con grande cura. Non ho visto sequel fatti tanto per farli. Ma la domanda resta aperta: quanto durerà questa perfezione? Quanto ci vorrà prima che anche in Corea si inizino a spremere le storie di successo, fino a svuotarle completamente?


Un addio silenzioso all’autoconclusività?

Per chi, come me, si è innamorato dei K-drama perché sapeva che in 16 episodi avrebbe trovato tutto – emozioni, trama, closure – questo cambiamento è un po’ spiazzante. Più stagioni significa più hype, ma anche più incertezza. Più potenziale narrativo, ma anche più rischi di rovinare ciò che era già perfetto così com’era.

E allora mi chiedo: siamo davvero pronti a dire addio ai finali definitivi?

Forse è solo evoluzione. Forse è solo una fase. Ma ogni volta che vedo un finale aperto, oggi, sento un piccolo brivido. Non sempre di entusiasmo. Più spesso… di malinconia.

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