Sai quel detto secondo cui, quando impari una lingua straniera, la prima cosa che memorizzi sono le parolacce? Ecco, con il coreano funziona allo stesso modo, ma con una piccola differenza: in Corea le parolacce non sono solo “parolacce”. Sono un universo a parte, un mondo complesso fatto di storia, linguistica, creatività e soprattutto gerarchia sociale. E quello che spesso sentiamo nei K-drama è solo la punta dell’iceberg.
Per capire davvero cosa significano, bisogna partire da una delle prime “illusioni acustiche” che colpisce chi studia la lingua: la quasi perfetta somiglianza tra il numero 18 (십팔, sship-pal) e una delle parolacce più pesanti in assoluto, 씹할 (ssi-pal). È il motivo per cui, in TV, i personaggi esitano sempre un attimo prima di dire “18 anni”. Una frase innocente come “Lo gestisco da 18 anni” diventa improvvisamente rischiosissima in coreano, perché “십팔년” suona fin troppo simile a un insulto diretto e devastante rivolto a una donna. Bastano due sillabe per passare da “età dell’attività” a “offesa da censura”.
Il motivo è semplice: 씹할, insieme a 씨발, 씨팔 e simili, deriva dal verbo 씹하다, un modo estremamente volgare per indicare il rapporto sessuale. In origine, queste imprecazioni implicavano addirittura un riferimento all’incesto, l’atto più devastante immaginabile in una società rigidamente confuciana come la Corea della dinastia Joseon. Non sorprende quindi che, ancora oggi, abbiano un peso emotivo enorme. E questa è solo la prima porta d’ingresso nel mondo affascinante dello yok (욕), il turpiloquio coreano.
Gli insulti “animaleschi”: quando dire “cucciolo di cane” diventa un pugno allo stomaco
Uno dei termini più frequenti è 개새끼 (gaesaekki), letteralmente “figlio di un cane”. A prima vista potrebbe sembrare simile a un insulto occidentale, ma in Corea è molto più pesante: nasce dall’idea che i cani possano accoppiarsi anche con la madre, e quindi trascina con sé un sottotesto di impurità e vergogna profondamente radicato.
Da qui deriva anche 새끼 (saekki), che da solo indica un cucciolo, ma rivolto a una persona diventa un insulto variabile: può essere una presa in giro tra amici (“야, 이 새끼야!”) oppure un attacco diretto. Tutto dipende dal tono — e in Corea, il tono è quasi tutto.
Le parolacce che nascono da disabilità e malattie
Una parte molto delicata dello yok riguarda i termini derivati da condizioni mediche reali.
- 병신 (byeongsin) e 등신 (deungsin) erano usati un tempo per indicare persone con disabilità fisiche o mentali. Oggi sono insulti pesantissimi, usati purtroppo con leggerezza dai giovani, nonostante il significato ferocemente discriminatorio.
- 지랄 (jiral) e 염병 (yeom-byeong), invece, nascono da malattie reali.
- 지랄 indicava le convulsioni dell’epilessia.
- 염병 era associato alla febbre tifoide, una malattia che per secoli aveva una mortalità altissima.
Nessuno dei due era nato per insultare, ma con il tempo sono diventati modi per dire: “ti stai comportando in modo assurdo” oppure “ti auguro una disgrazia”.
La frase “지랄하지마” oggi significa semplicemente “smettila di dire stronzate”, ma se si pensa alla radice storica, la portata è completamente diversa.
La poesia brutale dello yok nella dinastia Joseon
Se pensi che gli insulti moderni siano forti, quelli di qualche secolo fa erano dei veri e propri capolavori letterari. La società confuciana vietava la violenza fisica e imponeva la massima compostezza nelle interazioni. E allora come si risolvevano le dispute? A colpi di creatività verbale.
Uno degli insulti più famosi dell’epoca suona così:
“오줌에 씻겨 나와 똥물에 헹군 놈, 모기 대가리에 골을 내라. 지랄 방구 쌈싸먹고 자빠졌네, 씨부럴 놈.”
La traduzione rende solo in parte l’idea:
“Tu, figlio di p***** nato nel piscio, sciacquato nell’acqua di merda, perché non provi a tirare fuori il cervello da una zanzara? Hai mangiato una scoreggia epilettica avvolta nel ssam? Pezzo di m* fottutissimo.”
Questa tradizione di “insulti concatenati” era così radicata che molti linguisti la considerano una forma primitiva di diss battle, molto prima che il concetto esistesse nell’hip hop.
L’evoluzione moderna: quando insulti… senza insultare
Oggi, con i divieti televisivi e la sensibilità sociale, i coreani hanno sviluppato modi più creativi per insultare senza usare vere parolacce. Frasi come:
“조카크레파스십팔색이야” (“Il set di pastelli di mio nipote ha 18 colori.”)
“시베리아 벌판에서 귤이나 까라” (“Vai a sbucciare mandarini in un campo siberiano.”)
Sembrano innocue, ma nascondono suoni che ricordano sillabe proibite. È un modo sottile, quasi giocoso, per aggirare la censura senza rinunciare alla soddisfazione dell’insulto.
Il fattore decisivo: gerarchia e livelli di rispetto
Usare il banmal (linguaggio informale) con qualcuno più grande può essere già considerato maleducato. Usare una parolaccia è, semplicemente, inammissibile.
Le 10 parolacce più comuni e il loro uso reale
E sì, sono affascinanti, colorite, creative, quasi poetiche nella loro brutalità. Ma proprio per questo, vanno maneggiate con cura. Perché in una cultura dove il linguaggio è legato alla dignità e all’armonia sociale, una singola sillaba può essere più potente di qualsiasi gesto.
Fonti:
- https://migaku.com/blog/korean/korean-swear-words
- https://laseoulite.substack.com/p/etymology-of-korean-cuss-words

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