3 dicembre 2025

Yi Sun-shin e la nave tartaruga: quando la storia diventa mito (e perché vale la pena tornare ai fatti)

 


Chiunque abbia sfiorato anche solo per un giorno la storia coreana sa che il nome di Yi Sun-shin (이순신) è ovunque. Statue imponenti lo rappresentano nel cuore di Seoul, altre si stagliano presso la Busan Tower, e la sua figura è diventata sinonimo di eroismo nazionale. Ma una domanda scomoda rimane sospesa: quanto di ciò che oggi si racconta su di lui e sulle sue famose “navi tartaruga” è storia, e quanto è leggenda costruita a tavolino?

Il genio militare dietro la leggenda

Su una cosa non ci sono dubbi: le imprese militari di Yi Sun-shin furono reali. Come comandante della marina coreana durante la Guerra Imjin, tra il 1592 e il 1598, vinse tutte le 23 battaglie navali a cui prese parte. Un record impressionante da solo, ma che diventa quasi irreale se si pensa alla Battaglia di Myeongnyang (명량), combattuta nel 1597 nei pressi dell’isola di Jindo: 13 navi coreane contro 133 navi giapponesi. E vinse. Gli storici non mettono in discussione né l’episodio né il risultato: Yi era davvero un genio della strategia.

Per il suo ruolo decisivo in una guerra che, alla fine, gli costò anche la vita, Yi fu onorato da re e studiosi per secoli. Nonostante questo, in vita non fu certo considerato il “coreano perfetto”. Anzi: un suo superiore lo accusò falsamente di diserzione, e per questo venne imprigionato e torturato. Yi era rispettato e ammirato, ma non ancora trasformato in quella figura quasi sacra che conosciamo oggi.

Da eroe di guerra a santo nazionale

La svolta avviene alla fine dell’Ottocento. Dopo che il Giappone prese definitivamente il controllo della Corea nel 1895, molti intellettuali sentirono il bisogno di dare al popolo un modello di resistenza, qualcuno che insegnasse come opporsi al dominio straniero. E chi meglio di Yi Sun-shin, l’uomo che secoli prima aveva contribuito a salvare la Corea da un’invasione giapponese?

Così, gli scrittori iniziarono a trasformare Yi in qualcosa di molto più grande di un semplice eroe militare. Nei testi storici e letterari dell’epoca, Yi venne descritto come “eroe e santo” mandato da Dio, un uomo moralmente impeccabile. In alcuni racconti, la sua figura assume quasi i tratti di un Cristo coreano: un uomo perfetto ma perseguitato, che muore sacrificandosi per un popolo presentato come “stupido e malvagio”, bisognoso di essere salvato da sé stesso.

Questa mitizzazione non si fermò con la fine del colonialismo giapponese. Dopo la sconfitta del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, la Corea del Sud continuò a coltivare e amplificare il mito di Yi Sun-shin. Durante il regime militare di Park Chung-hee (1963–1979), la sua figura divenne un simbolo ideale: un eroe di guerra perfetto per un governo controllato dall’esercito, utile a rafforzare il senso di unità nazionale e la retorica del sacrificio patriottico.

Il prezzo del mito: quando l’eroe diventa troppo perfetto

Tutta questa propaganda ebbe un effetto preciso: la storia di Yi divenne molto più drammatica rispetto a ciò che le fonti storiche suggeriscono. In vita, Yi non fu sempre perfetto nemmeno sul piano umano. A volte, per migliorare la propria posizione a corte, presentò rapporti esagerati o non del tutto veritieri al re. Eppure, nell’immaginario contemporaneo, questa ambiguità è scomparsa: oggi Yi viene ricordato come un uomo mosso unicamente dall’amore puro per il suo Paese e per i suoi uomini, mentre chiunque lo abbia contrastato è relegato al ruolo di bugiardo invidioso.

Una delle trasformazioni più clamorose riguarda la sua morte. Oggi molti credono che Yi abbia scelto consapevolmente di morire nella sua ultima battaglia: alcuni racconti sostengono che si sia tolto l’armatura perché preferiva morire piuttosto che subire di nuovo l’ingiustizia di un re ingrato; altri dicono che si sia messo deliberatamente in prima linea, sulla prua della nave, per ispirare i suoi uomini. Quasi tutti sono d’accordo su un punto: mentre moriva, Yi avrebbe chiesto che la sua morte rimanesse segreta fino al termine dello scontro.

La verità? Potrebbe davvero essere andata così. Oppure no. Il problema è che, a forza di stratificare versioni sempre più eroiche, la linea tra ciò che è documentato e ciò che è stato drammatizzato si è confusa. Ed è proprio per questo che gli storici insistono sulla necessità di “riscoprire il vero Yi Sun-shin”: esagerare le imprese e le virtù di una persona reale finisce per toglierle qualcosa, non per aggiungerlo. Yi non era una combinazione perfetta tra il Buddha e Gengis Khan, ma proprio dietro il mito c’è un uomo reale, complesso, fallibile, che vale la pena conoscere.

La nave tartaruga: orgoglio nazionale e realtà storica

Se il mito di Yi è potente, quello delle sue navi lo è ancora di più. La nave tartaruga, o geobuk-seon (거북선), occupa un posto centrale nell’immaginario coreano. Nella provincia del Jeolla Meridionale e nella città portuale di Yeosu è motivo di orgoglio locale, celebrata come simbolo di ingegno e resistenza. Secondo la tradizione, queste navi erano le prime al mondo a essere dotate di un’armatura di ferro: un tetto corazzato ricoperto di spuntoni che proteggeva dai proiettili giapponesi e impediva ai nemici di salire a bordo.

Il ruolo della nave tartaruga nella mitologia nazionale coreana è quasi più importante del suo ruolo nella storia navale mondiale. Nei racconti moderni della Guerra Imjin (1592–1598), queste imbarcazioni rappresentano l’idea che un Paese piccolo possa colmare le proprie debolezze militari con creatività e tecnologia. Ma qui arriva la domanda spinosa: la Corea ha davvero inventato la prima nave corazzata della storia?

Legno, non ferro: cosa dicono le fonti

Le prove disponibili indicano con forza che le navi tartaruga del 1592 non avevano un tetto di ferro, bensì di legno con punte metalliche. Il nipote dell’ammiraglio, Yi Bun, descrisse dettagliatamente queste imbarcazioni nel suo resoconto, spiegando che il “dorso” della tartaruga era un tetto di assi di legno. Anche il primo ministro dell’epoca, Yu Seong-nyong, scrisse che le navi erano “coperte da assi di legno nella parte superiore”.

Dall’altra parte, le prove in favore del tetto corazzato sono praticamente inesistenti. Nessun documento  parla di piastre d’acciaio o di vera armatura metallica. Nemmeno Yi Sun-shin, che ordinò la costruzione delle navi, menzionò mai un rivestimento di ferro nel suo diario. E non è difficile capire perché: installare un tetto di ferro sarebbe stato, molto probabilmente, controproducente.

Le navi tartaruga non avevano bisogno di una protezione aggiuntiva così pesante: lo spessore del legno era già sufficiente a difenderle, soprattutto perché i giapponesi usavano pochissimi cannoni in mare. In più, un tetto di ferro le avrebbe rese molto più lente, andando contro la loro funzione principale: speronare le navi nemiche e manovrare con rapidità. A questo si aggiunge un fattore economico tutt’altro che irrilevante: la quantità di ferro necessaria per corazzare un solo geobuk-seon equivaleva al materiale richiesto per costruirne un altro da zero.

Eppure, se visiti oggi il War Memorial di Seoul o altre ricostruzioni storiche, vedrai spesso navi tartaruga con tetti piastrellati di metallo. È l’immagine che si è cristallizzata nel tempo: spettacolare, suggestiva, iconica… ma quasi certamente sbagliata.

Un capolavoro ingegneristico, anche senza armatura

Il fatto che le navi tartaruga non fossero ricoperte di ferro non le rende però meno straordinarie. L’architetto che progettò il geobuk-seon, Na Dae-yong, lasciò il suo incarico governativo nel 1587 per tornare a Naju, nel Jeolla Meridionale, e dedicarsi completamente allo studio e alla progettazione di queste imbarcazioni. Il risultato fu una nave che, anche senza armatura, rappresentava un enorme passo avanti nella costruzione navale.

Uno degli aspetti più interessanti, paradossalmente, riguarda proprio l’uso del legno al posto del metallo: i chiodi di legno, anziché quelli di ferro, evitavano la ruggine e si rinforzavano assorbendo l’acqua, espandendosi nei fori e consolidando le giunture. Inoltre, le navi furono progettate per sparare colpi di cannone sia frontalmente sia posteriormente. Questo permetteva manovre spietate: speronare la nave nemica e colpirla quasi a bruciapelo.

Il geobuk-seon era, insomma, una macchina da guerra pensata per sfruttare ogni elemento a favore della marina coreana: velocità, manovrabilità, potenza di fuoco e protezione sufficiente per il tipo di combattimento dell’epoca. Il tetto di ferro, anche se inesistente, è finito per oscurare tutte queste innovazioni reali.

Tra orgoglio e verità: perché il “vero” Yi Sun-shin conta di più del mito

La storia di Yi Sun-shin e della nave tartaruga è un esempio perfetto di come una nazione, soprattutto quando ferita o minacciata, cerchi figure e simboli in cui riconoscersi. Nei momenti difficili, raccontare un ammiraglio come un santo guerriero e una nave come la prima corazzata del mondo è rassicurante, motivante, identitario.

Ma a volte il mito finisce per appiattire la realtà. Più si trasforma Yi in una figura perfetta, mandata da Dio, pronta a sacrificarsi in modo quasi teatrale, più si rischia di perdere di vista l’uomo reale: un comandante brillante, certo, ma anche un funzionario che sbagliava, manovrava, cercava di migliorare la propria posizione. Un uomo che non aveva bisogno di aureole o armature di ferro per essere straordinario.

Allo stesso modo, la nave tartaruga non ha bisogno di un tetto metallico per essere motivo di orgoglio. Era già, di per sé, un concentrato di ingegno, adattata alle condizioni reali della guerra in mare dell’epoca, progettata in modo intelligente e sfruttata con una strategia devastante.

Forse, il modo più maturo di onorare Yi Sun-shin e il suo geobuk-seon non è continuare ad aggiungere strati di leggenda, ma avere il coraggio di togliere quelli superflui. Quello che resta, alla fine, è ancora abbastanza potente: un uomo in carne e ossa che ha cambiato il corso della storia del suo Paese, e una nave che dimostra come l’ingegno umano possa fare la differenza anche senza superpoteri inventati.