Chiunque abbia sfiorato anche solo per un giorno
la storia coreana sa che il nome di Yi Sun-shin (이순신) è ovunque. Statue imponenti lo rappresentano
nel cuore di Seoul, altre si stagliano presso la Busan Tower, e la sua figura è
diventata sinonimo di eroismo nazionale. Ma una domanda scomoda rimane sospesa:
quanto di ciò che oggi si racconta su di lui e sulle sue famose “navi tartaruga”
è storia, e quanto è leggenda costruita a tavolino?
Il genio
militare dietro la leggenda
Su una cosa non ci sono dubbi: le imprese
militari di Yi Sun-shin furono reali. Come comandante della marina coreana
durante la Guerra Imjin, tra il 1592 e il 1598, vinse tutte le 23 battaglie
navali a cui prese parte. Un record impressionante da solo, ma che diventa
quasi irreale se si pensa alla Battaglia di Myeongnyang (명량), combattuta
nel 1597 nei pressi dell’isola di Jindo: 13 navi coreane contro 133 navi
giapponesi. E vinse. Gli storici non mettono in discussione né l’episodio né il
risultato: Yi era davvero un genio della strategia.
Per il suo ruolo decisivo in una guerra che, alla
fine, gli costò anche la vita, Yi fu onorato da re e studiosi per secoli.
Nonostante questo, in vita non fu certo considerato il “coreano perfetto”.
Anzi: un suo superiore lo accusò falsamente di diserzione, e per questo venne
imprigionato e torturato. Yi era rispettato e ammirato, ma non ancora
trasformato in quella figura quasi sacra che conosciamo oggi.
Da eroe di
guerra a santo nazionale
La svolta avviene alla fine dell’Ottocento. Dopo
che il Giappone prese definitivamente il controllo della Corea nel 1895, molti
intellettuali sentirono il bisogno di dare al popolo un modello di resistenza,
qualcuno che insegnasse come opporsi al dominio straniero. E chi meglio di Yi
Sun-shin, l’uomo che secoli prima aveva contribuito a salvare la Corea da
un’invasione giapponese?
Così, gli scrittori iniziarono a trasformare Yi
in qualcosa di molto più grande di un semplice eroe militare. Nei testi storici
e letterari dell’epoca, Yi venne descritto come “eroe e santo” mandato da Dio,
un uomo moralmente impeccabile. In alcuni racconti, la sua figura assume quasi
i tratti di un Cristo coreano: un uomo perfetto ma perseguitato, che muore
sacrificandosi per un popolo presentato come “stupido e malvagio”, bisognoso di
essere salvato da sé stesso.
Questa mitizzazione non si fermò con la fine del
colonialismo giapponese. Dopo la sconfitta del Giappone nella Seconda Guerra
Mondiale, la Corea del Sud continuò a coltivare e amplificare il mito di Yi
Sun-shin. Durante il regime militare di Park Chung-hee (1963–1979), la sua
figura divenne un simbolo ideale: un eroe di guerra perfetto per un governo
controllato dall’esercito, utile a rafforzare il senso di unità nazionale e la
retorica del sacrificio patriottico.
Il prezzo del
mito: quando l’eroe diventa troppo perfetto
Tutta questa propaganda ebbe un effetto preciso:
la storia di Yi divenne molto più drammatica rispetto a ciò che le fonti
storiche suggeriscono. In vita, Yi non fu sempre perfetto nemmeno sul piano
umano. A volte, per migliorare la propria posizione a corte, presentò rapporti
esagerati o non del tutto veritieri al re. Eppure, nell’immaginario
contemporaneo, questa ambiguità è scomparsa: oggi Yi viene ricordato come un
uomo mosso unicamente dall’amore puro per il suo Paese e per i suoi uomini,
mentre chiunque lo abbia contrastato è relegato al ruolo di bugiardo invidioso.
Una delle trasformazioni più clamorose riguarda
la sua morte. Oggi molti credono che Yi abbia scelto consapevolmente di morire
nella sua ultima battaglia: alcuni racconti sostengono che si sia tolto
l’armatura perché preferiva morire piuttosto che subire di nuovo l’ingiustizia
di un re ingrato; altri dicono che si sia messo deliberatamente in prima linea,
sulla prua della nave, per ispirare i suoi uomini. Quasi tutti sono d’accordo
su un punto: mentre moriva, Yi avrebbe chiesto che la sua morte rimanesse segreta
fino al termine dello scontro.
La verità? Potrebbe davvero essere andata così.
Oppure no. Il problema è che, a forza di stratificare versioni sempre più
eroiche, la linea tra ciò che è documentato e ciò che è stato drammatizzato si
è confusa. Ed è proprio per questo che gli storici insistono sulla necessità di
“riscoprire il vero Yi Sun-shin”: esagerare le imprese e le virtù di una
persona reale finisce per toglierle qualcosa, non per aggiungerlo. Yi non era
una combinazione perfetta tra il Buddha e Gengis Khan, ma proprio dietro il mito
c’è un uomo reale, complesso, fallibile, che vale la pena conoscere.
La nave
tartaruga: orgoglio nazionale e realtà storica
Se il mito di Yi è potente, quello delle sue navi
lo è ancora di più. La nave tartaruga, o geobuk-seon (거북선), occupa un
posto centrale nell’immaginario coreano. Nella provincia del Jeolla Meridionale
e nella città portuale di Yeosu è motivo di orgoglio locale, celebrata come
simbolo di ingegno e resistenza. Secondo la tradizione, queste navi erano le
prime al mondo a essere dotate di un’armatura di ferro: un tetto corazzato
ricoperto di spuntoni che proteggeva dai proiettili giapponesi e impediva ai
nemici di salire a bordo.
Il ruolo della nave tartaruga nella mitologia nazionale coreana è quasi più importante del suo ruolo nella storia navale mondiale. Nei racconti moderni della Guerra Imjin (1592–1598), queste imbarcazioni rappresentano l’idea che un Paese piccolo possa colmare le proprie debolezze militari con creatività e tecnologia. Ma qui arriva la domanda spinosa: la Corea ha davvero inventato la prima nave corazzata della storia?
Legno, non
ferro: cosa dicono le fonti
Le prove disponibili indicano con forza che le
navi tartaruga del 1592 non avevano un tetto di ferro, bensì di legno con punte
metalliche. Il nipote dell’ammiraglio, Yi Bun, descrisse dettagliatamente
queste imbarcazioni nel suo resoconto, spiegando che il “dorso” della tartaruga
era un tetto di assi di legno. Anche il primo ministro dell’epoca, Yu
Seong-nyong, scrisse che le navi erano “coperte da assi di legno nella parte
superiore”.
Dall’altra parte, le prove in favore del tetto
corazzato sono praticamente inesistenti. Nessun documento parla di
piastre d’acciaio o di vera armatura metallica. Nemmeno Yi Sun-shin, che ordinò
la costruzione delle navi, menzionò mai un rivestimento di ferro nel suo
diario. E non è difficile capire perché: installare un tetto di ferro sarebbe
stato, molto probabilmente, controproducente.
Le navi tartaruga non avevano bisogno di una
protezione aggiuntiva così pesante: lo spessore del legno era già sufficiente a
difenderle, soprattutto perché i giapponesi usavano pochissimi cannoni in mare.
In più, un tetto di ferro le avrebbe rese molto più lente, andando contro la
loro funzione principale: speronare le navi nemiche e manovrare con rapidità. A
questo si aggiunge un fattore economico tutt’altro che irrilevante: la quantità
di ferro necessaria per corazzare un solo geobuk-seon equivaleva al
materiale richiesto per costruirne un altro da zero.
Eppure, se visiti oggi il War Memorial di Seoul o
altre ricostruzioni storiche, vedrai spesso navi tartaruga con tetti
piastrellati di metallo. È l’immagine che si è cristallizzata nel tempo:
spettacolare, suggestiva, iconica… ma quasi certamente sbagliata.
Un capolavoro
ingegneristico, anche senza armatura
Il fatto che le navi tartaruga non fossero
ricoperte di ferro non le rende però meno straordinarie. L’architetto che
progettò il geobuk-seon, Na Dae-yong, lasciò il suo incarico governativo
nel 1587 per tornare a Naju, nel Jeolla Meridionale, e dedicarsi completamente
allo studio e alla progettazione di queste imbarcazioni. Il risultato fu una
nave che, anche senza armatura, rappresentava un enorme passo avanti nella
costruzione navale.
Uno degli aspetti più interessanti,
paradossalmente, riguarda proprio l’uso del legno al posto del metallo: i
chiodi di legno, anziché quelli di ferro, evitavano la ruggine e si
rinforzavano assorbendo l’acqua, espandendosi nei fori e consolidando le giunture.
Inoltre, le navi furono progettate per sparare colpi di cannone sia
frontalmente sia posteriormente. Questo permetteva manovre spietate: speronare
la nave nemica e colpirla quasi a bruciapelo.
Il geobuk-seon era, insomma, una macchina
da guerra pensata per sfruttare ogni elemento a favore della marina coreana:
velocità, manovrabilità, potenza di fuoco e protezione sufficiente per il tipo
di combattimento dell’epoca. Il tetto di ferro, anche se inesistente, è finito
per oscurare tutte queste innovazioni reali.
Tra orgoglio e
verità: perché il “vero” Yi Sun-shin conta di più del mito
La storia di Yi Sun-shin e della nave tartaruga è
un esempio perfetto di come una nazione, soprattutto quando ferita o
minacciata, cerchi figure e simboli in cui riconoscersi. Nei momenti difficili,
raccontare un ammiraglio come un santo guerriero e una nave come la prima
corazzata del mondo è rassicurante, motivante, identitario.
Ma a volte il mito finisce per appiattire la
realtà. Più si trasforma Yi in una figura perfetta, mandata da Dio, pronta a
sacrificarsi in modo quasi teatrale, più si rischia di perdere di vista l’uomo
reale: un comandante brillante, certo, ma anche un funzionario che sbagliava,
manovrava, cercava di migliorare la propria posizione. Un uomo che non aveva
bisogno di aureole o armature di ferro per essere straordinario.
Allo stesso modo, la nave tartaruga non ha
bisogno di un tetto metallico per essere motivo di orgoglio. Era già, di per
sé, un concentrato di ingegno, adattata alle condizioni reali della guerra in
mare dell’epoca, progettata in modo intelligente e sfruttata con una strategia
devastante.
Forse, il modo più maturo di onorare Yi Sun-shin e il suo geobuk-seon non è continuare ad aggiungere strati di leggenda, ma avere il coraggio di togliere quelli superflui. Quello che resta, alla fine, è ancora abbastanza potente: un uomo in carne e ossa che ha cambiato il corso della storia del suo Paese, e una nave che dimostra come l’ingegno umano possa fare la differenza anche senza superpoteri inventati.
- https://gwangjunewsgic.com/arts-culture/korean-myths/behind-the-myth-yi-sun-shin/
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