Sappiamo tutto dei re della dinastia Joseon. I loro nomi riempiono gli Annali, scolpiti nella memoria collettiva come padri della nazione. Ma le donne? Le donne restano ai margini, sfocate, quasi trasparenti, come un ricamo dimenticato tra le pieghe della storia. Eppure, senza di loro, Joseon non sarebbe durata cinquecento anni.
Questo articolo è un omaggio. Un viaggio tra stanze chiuse, veli abbassati, palazzi e baracche. Tra regine incoronate e schiave senza nome. Un tentativo di restituire voce e colore a chi, troppo spesso, è rimasta dietro le quinte, pur tenendo in piedi l’intero palcoscenico.
Regine, concubine e cortigiane: le donne nei palazzi dorati
Nel cuore della corte, dove lo sfarzo conviveva con la solitudine, vivevano le donne della famiglia reale. La Regina, madre della nazione, era scelta con un processo rigido, quasi ossessivo. Doveva avere grazia, virtù, una famiglia senza macchia, e soprattutto non portare il cognome Yi, lo stesso del casato reale. Ma anche dopo l’incoronazione, il suo potere era fragile: se non dava un erede maschio, il re poteva scegliere concubine. E lei, paradossalmente, diventava madre dei figli altrui.
Eppure, all’interno del sistema patriarcale confuciano, alcune donne riuscirono a guadagnarsi autorità vera. Le Regine Madri reggevano lo Stato quando il sovrano era troppo giovane. Le loro famiglie acquisivano potere, e loro diventavano figure politiche temute. Le regine, inoltre, erano a capo del naeoemyeongbu, l'organizzazione che gestiva ogni aspetto delle donne di corte. Neanche il re poteva intromettersi.
Le concubine reali, a loro volta, seguivano una scala gerarchica complessa e spietata. La più alta era la bin, la più bassa la sukwon. Bastava un figlio maschio per scalare le vette del palazzo. Bastava un capriccio del re per crollare nel vuoto.
E poi c’erano le gungnyeo, le donne di palazzo, entrate bambine, spesso a quattro anni, figlie di schiavi o comuni cittadini, cresciute per servire, cucire, preparare pasti, curare, sorridere. Le più fortunate diventavano sanggung, supervise delle altre. Le più amate dal re ricevevano privilegi e invidia. Le altre? Rimanevano anonime. O venivano dimenticate, senza mai lasciare le mura del palazzo.
Al di fuori del palazzo: il mondo delle donne comuni
Scendendo la scala sociale, incontriamo le yangban, donne nobili sì, ma intrappolate in un modello che le voleva mute, invisibili, caste. Gestivano le case con mano ferma, educavano i figli, organizzavano i riti ancestrali. Ma dovevano sempre camminare un passo dietro al marito, al suocero, al figlio. Anche da vedove, non avevano diritto al lutto per la propria famiglia. E se osavano sposarsi di nuovo? Potevano essere condannate a morte.
Il loro ideale era racchiuso nel Naehun, il manuale scritto da una regina per le donne: “Non devi essere brillante. Devi essere silenziosa. Devi servire.” Così cresceva una figlia yangban. Così moriva, spesso, una moglie fedele. Applaudita solo se si suicidava per onorare il marito morto.
Lavoratrici, madri, ribelli: le donne del popolo
Le jungin, classe media, erano mogli di medici, interpreti, artigiani. Vivevano in un limbo tra prestigio e frustrazione. Le sangmin, ovvero le comuni contadine, erano la spina dorsale del Paese. Aravano, cucivano, crescevano figli e pagavano le tasse. Alcune, come le haenyeo di Jeju, si tuffavano nel mare, sfidando le onde per portare a casa conchiglie e alghe. Il marito? A casa, con i bambini.
Persino i mercanti, seppur disprezzati dai nobili, nascondevano figure straordinarie come Kim Man-deok, che vendette tutto per sfamare il suo popolo. Una donna nata da una gisaeng, diventata benefattrice della sua isola.
Ma sotto di loro, c’era il buio.
Gisaeng, schiave e fantasmi
Le gisaeng erano artiste, cortigiane, muse. Addestrate a danzare, cantare, scrivere poesie. Più libere, forse, delle nobildonne, ma schiave sotto una parvenza di seta. La loro bellezza era celebrata, ma spesso abusata. Le leggi dicevano che non dovevano offrire il proprio corpo, ma il potere degli uomini diceva il contrario.
Alcune divennero leggenda, come Hwang Jin-yi, padrona di poesia e dolore. Altre finirono dimenticate, vendute, costrette a cedere i propri corpi. Le più fortunate aprivano taverne, o diventavano uinyŏ, medichesse esperte. Le altre venivano rimpiazzate dalle figlie, e il ciclo ricominciava.
Le sadangpae, artiste itineranti, eseguivano danze e spettacoli tra le strade e le campagne. Ma per sopravvivere, spesso dovevano vendere se stesse. I changwoo, i flower boys dalle doti artistiche, erano ammirati e desiderati. Le loro compagne, sfruttate.
E poi c’erano le schiave, invisibili tra gli invisibili. Nate in catene, spesso per debiti, punizioni o eredità. Potevano diventare nutrici, serve, cuoche, tessitrici. Oppure nobi, proprietà di altri esseri umani. Se fortunate, compravano la libertà. Se no, vivevano e morivano come oggetti.
Le mistiche dell’ombra
Le shamane e le monache buddiste erano guardate con sospetto dallo Stato confuciano. Relegate ai margini, proibite nella capitale. Eppure erano fondamentali per le donne. Le prime invocate per preghiere e talismani, le seconde cercate per conforto e spiritualità. Le donne della corte, nonostante le leggi, continuavano a invocarle. Era un modo per ribellarsi in silenzio. Per cercare voce in un mondo che le voleva mute.
Perché parlarne oggi?
Perché anche nei drama, queste donne sono quasi sempre comparse. Sagome accanto ai re, madri pronte al sacrificio, serve silenziose, cortigiane dai sorrisi tristi. Ma dietro ogni scena, c’erano storie vere. Dolorose, ma piene di forza.
La storia di Joseon è anche la loro. Di ogni donna che ha cucito, pianto, combattuto. Che è stata madre, sorella, amante, figlia. Che ha portato avanti una dinastia per cinquecento anni senza che il suo nome comparisse negli Annali.
Oggi, la voce gliela restituiamo noi. Con affetto. Con rispetto. Con emozione.
Fonte:
- https://thetalkingcupboard.com/2014/06/15/women-of-the-joseon-dynasty-part-1/
- https://thetalkingcupboard.com/2014/10/30/women-of-the-joseon-dynasty-part-2/