17 dicembre 2025

la storia delle droghe nella penisola coreana, tra passato coloniale e nuove fratture

 

Scrivo questo pezzo con quella sensazione che ritorna ogni volta che affondo le mani dentro una storia che non ci viene raccontata spesso, o che viene spazzata via da una narrazione più semplice, più tranquillizzante. Eppure, come sempre, sotto la superficie ci sono strati che meritano di essere riportati alla luce. La Corea è un Paese che molti associano alla disciplina, all’ordine, alla rigida distanza dal tema delle droghe. Un luogo che, nell’immaginario comune, sarebbe quasi “immune” a tutto ciò che riguarda traffici, dipendenze, stupefacenti. Ma la verità è complessa, stratificata, spesso scomoda.

La storia delle droghe nella penisola coreana è un percorso fatto di carestie, scelte forzate, repressioni feroci, interventi coloniali, ma anche di abitudini quotidiane, necessità improvvise e cambiamenti politici che hanno inciso in modi profondi e spesso dolorosi. È una storia che non conosce confini netti tra Nord e Sud, tra passato e presente: è una storia che ritorna, ciclica, con forme diverse ma radici molto più antiche di quanto si tenda a credere.


Il Nord del dopo-carestia: quando la meth diventa normalità

Dopo la devastante carestia degli anni ’90, il regime nordcoreano si trovò schiacciato da un’urgenza brutale: trovare risorse in qualsiasi modo. È in quel contesto che nacque uno dei fenomeni più sorprendenti e inquietanti della Corea del Nord contemporanea: la produzione statale di narcotici. Prima l’oppio, poi la metamfetamina. Non una produzione marginale, non un mercato criminale nascosto, ma fabbriche statali coinvolte direttamente per ottenere entrate in un Paese allo stremo.

Il paradosso più grande è che la meth, nella vita quotidiana nordcoreana, iniziò a entrare nelle case come se fosse una cosa normale. C’era chi la prendeva per curare il raffreddore, chi per trovare un po’ di energia, chi per riuscire a studiare fino a tardi. La metamfetamina diventò quasi una compagna di sopravvivenza, un rimedio improvvisato in un Paese senza farmaci, senza cure, senza mezzi.

Quando nel 2004 le pressioni della Cina spinsero il regime a ritirarsi “ufficialmente” dal commercio, il vuoto fu riempito immediatamente dai trafficanti indipendenti, altrettanto organizzati, altrettanto determinati. La rete non si dissolse: cambiò semplicemente padrone.


Il Sud e la sua linea dura: la punizione come politica

All’estremo opposto della penisola, la Corea del Sud costruì una narrazione completamente diversa: quella del Paese che rifiuta le droghe. Una narrazione che ha attraversato decenni, trasformandosi quasi in un marchio identitario.

Eppure, anche qui, la realtà è più articolata. Negli anni ’60 e ’70 la marijuana, la famosa daema non solo cresceva spontaneamente, ma veniva usata largamente per realizzare hanbok e tessuti tradizionali. Quando i soldati americani arrivarono durante il periodo postbellico, portarono con sé nuove abitudini, nuove influenze, nuovi modi di usare la canapa. Il consumo ricreativo aumentò, specialmente negli ambienti artistici, i più curiosi, i più aperti alle influenze esterne.

Ma fu un breve respiro. Nel 1976, la Cannabis Control Act pose una linea netta, durissima, criminalizzando la marijuana. Molti videro in quella legge non solo la volontà di reprimere un fenomeno considerato “estraneo”, ma anche un modo per colpire proprio quegli artisti che contestavano il potere politico di allora. Il messaggio era chiaro: non ci sarebbe stata tolleranza.

E così la Corea del Sud iniziò a costruire la propria reputazione internazionale di Paese “quasi libero da droghe”. Una reputazione sostenuta dai numeri: mentre negli Stati Uniti milioni di persone venivano arrestate ogni anno per reati legati agli stupefacenti, in Corea gli arresti si contavano in poche migliaia. Una differenza enorme che, per molti coreani, è diventata motivo di orgoglio… e allo stesso tempo uno schermo dietro cui nascondere le complessità del passato.


Uno sguardo indietro: la Corea coloniale e la piaga dimenticata dell’oppio

C’è una parte di storia che raramente viene ricordata, forse perché troppo scomoda, forse perché incrina l’immagine idealizzata della Corea “immune alle droghe”. All’inizio del XX secolo, sotto il dominio coloniale giapponese, la Corea fu trasformata in un gigantesco campo di produzione di oppio.

Il motivo? Il mondo era cambiato. Con la Prima guerra mondiale, il mercato globale dell’oppio era entrato in crisi: disponibilità ridotta, prezzi alle stelle, farmaceutiche giapponesi disperatamente bisognose di materia prima. I tentativi di coltivazione in Giappone erano falliti: terreni inadatti, agricoltori non incentivati. La soluzione, per il Giappone coloniale, era semplice e brutale: sfruttare la manodopera coreana e i terreni della penisola.

Così iniziò una produzione lenta, poi sempre più imponente. Dai 1.400 chilogrammi del 1930 si passò ai 50.000 del 1941. Un’esplosione impressionante che trasformò la Corea in uno dei maggiori produttori di oppio dell’Asia orientale. La Corea commerciava morfina anche con Taiwan e con la Manciuria controllata dal Giappone: un sistema esteso, organizzato, industrializzato.


La dipendenza come conseguenza silenziosa

Ovviamente, una produzione così massiccia non rimase confinata alle farmacie coloniali. L’oppio finì nelle case, nelle strade, nelle mani di chi cercava sollievo, o semplicemente ignorava che ciò che stava assumendo fosse una droga. Anche prima dell’occupazione giapponese, alcuni coreani fumavano oppio. Ma con la proibizione del 1914, la dipendenza iniziò a cambiare volto. Non più oppio fumato: morfina iniettabile, pillole, eroina, cocaina. A volte le persone la compravano senza sapere cosa fosse davvero, convinte di acquistare rimedi miracolosi per il dolore, per lo stress, per la fatica.

Le cifre dell’epoca sono impressionanti. Nel 1924, secondo i giornali dell’epoca, a Seoul si contavano migliaia di tossicodipendenti da morfina. E non era un fenomeno circoscritto: la dipendenza cresceva, insieme alla criminalità, alla perdita di forza lavoro, agli effetti collaterali che rischiavano di destabilizzare la società coloniale.

Le autorità risposero con una serie di politiche: un registro ufficiale dei tossicodipendenti, controlli più rigidi, tentativi di riabilitazione. Nel 1939 dichiararono che la dipendenza era quasi scomparsa. Ma la verità era più ambigua: la Corea, ormai, era uno dei principali produttori di morfina ed eroina dell’Asia, e quell’industria non serviva più i coreani… ma l’estero. Alla fine della Seconda guerra mondiale, più del 90% della produzione di narcotici, realizzata tra il 1935 e il 1945, veniva esportata.


Il presente: un Paese che si scopre meno “immune” del previsto

La Corea del Sud contemporanea ha ancora un’immagine forte: quella del Paese quasi privo di droghe, disciplinato, stoico, immune alle dipendenze. Ma negli ultimi anni qualcosa si è incrinato. La percezione della popolazione sta cambiando: sempre più coreani non credono più che il Paese sia davvero “drug-free”. I numeri delle indagini più recenti mostrano una preoccupazione crescente, un riconoscimento collettivo che la realtà non coincide più con la narrazione storica.

E in fondo non c’è nulla di sorprendente in tutto questo. Il passato coloniale ha lasciato cicatrici profonde. Le influenze straniere del dopoguerra hanno scosso abitudini e sistemi culturali. Le crisi politiche e sociali hanno più volte creato aperture improvvise o repressioni violentissime. Ogni ciclo storico ha contribuito a costruire un rapporto complesso con il tema della droga: mai semplice, mai lineare, mai “passato indenne”.

Oggi, la Corea è un Paese che tenta di conciliare il proprio orgoglio nazionale con una consapevolezza nuova: quella di non essere stata mai davvero al riparo da ciò che accadeva nel mondo. Una consapevolezza che, forse, è il primo passo per affrontare il presente senza illusioni.


Conclusione: guardare alla storia senza paura

Raccontare questa storia è un esercizio di sincerità. È guardare la Corea non attraverso la lente pulita dell’immagine ufficiale, ma attraverso quella molto più vera della sua complessità. Dalla metamfetamina offerta come un tè caldo nel Nord affamato, alla linea durissima del Sud che ha tentato per decenni di cancellare anche il più piccolo sospetto di debolezza. Dalle colline di papaveri coltivate per volere coloniale, alle stanze buie di Seoul dove la morfina cambiava le vite nel silenzio. È una storia che chiede di essere ascoltata senza giudizio, ma con rispetto. Perché dietro ogni numero, ogni legge, ogni tradizione, ci sono persone, famiglie, scelte forzate, sopravvivenza. E forse è proprio questo che rende questa storia così importante: il fatto che, ancora una volta, la Corea riveli una verità che non segue il mito della purezza o dell’eccezionalità. Una verità fatta di fragilità, cicatrici, trasformazioni. Una verità che merita di essere vista, raccontata, ricordata.