Scrivo questo articolo con quella sensazione strana che arriva quando ti rendi conto che una storia è sempre più lunga, più intricata e più umana di come viene raccontata. C’è una narrativa molto diffusa sulla Corea e sull’omosessualità: quella secondo cui le relazioni tra persone dello stesso sesso sarebbero una sorta di “importazione culturale” dell’Occidente, un elemento estraneo alla tradizione coreana, comparso solo in tempi recenti. È una convinzione che ancora oggi circola e che, a volte, attecchisce perché l’unico quartiere percepito come visibilmente gay nella capitale, Itaewon, è conosciuto come il luogo in cui alcune persone vivono apertamente il proprio orientamento.
Eppure, basta spostare lo sguardo, proprio quell’occasione in cui ti fermi, ti togli i pregiudizi dalle tasche e decidi di fare un passo indietro nel tempo, per accorgerti di quanto questa idea sia fragile. Se davvero la Corea non avesse conosciuto l’omosessualità prima del 1800, sarebbe un unicum nell’Asia orientale. Intorno, tutto racconta un’altra storia. In Cina l’amore tra uomini era celebrato in dipinti e poesie come “la passione della manica tagliata”. In Giappone, fino alla Restaurazione Meiji, la “via della bellezza” descriveva relazioni accettate soprattutto tra monaci, soldati e uomini che vivevano in contesti separati dalle donne. Perfino la Russia, in epoche più lontane, trattava l’omosessualità con una sorprendente leggerezza.
E la Corea? Forse qui arriva la parte che colpisce di più: nella storia coreana esistono figure, tradizioni, poesie e interi ordini guerrieri che parlano, apertamente o implicitamente, di desideri e legami tra persone dello stesso sesso. È una storia che non sempre viene ricordata, e che oggi si intreccia con un presente più complesso, fatto di silenzi, battaglie, cambiamenti e internet café che diventano case sicure. Ma è anche una storia che merita di essere ripercorsa con rispetto, curiosità e consapevolezza.
Radici più antiche dei pregiudizi: la storia dimenticata
Prima ancora di parlare del presente, bisogna liberarsi di un vecchio preconcetto: quello che dipinge la Corea come una società naturalmente troppo conservatrice per accettare l’omosessualità. La verità è che la storia dimostra esattamente il contrario. Tre sovrani coreani hanno avuto amanti uomini: il re Hyegong di Silla, il re Mokjong e il re Gongmin. Perfino negli annali della famiglia reale emerge un episodio in cui il re Sejong, nel 1436, avrebbe scoperto che la propria nuora dormiva con la sua domestica. Piccoli frammenti, certo, ma potenti. Perché mostrano che l’amore e il desiderio tra persone dello stesso sesso non erano affatto sconosciuti.
E poi ci sono loro, gli hwarang, i celebri “Ragazzi Fiore” della dinastia Silla. Giovani guerrieri conosciuti per la loro bellezza, per i cosmetici che ne esaltavano i tratti, per una componente rituale fatta di estasi ed erotismo. In origine reclutati per servire a corte e indossare abiti femminili, divennero un ordine militare che ha lasciato un’impronta indelebile nella cultura coreana. Il loro mondo è arrivato fino a noi attraverso poesie e canti che non nascondono, anzi, dipingono con naturalezza legami affettivi ed erotici tra uomini.
Durante la dinastia Joseon, invece, tutto si sposta verso la condanna. La diffusione del neo-confucianesimo porta a giudicare l’omosessualità come qualcosa di “malvagio” o “sconveniente”. Ma, ancora una volta, la storia completa è più complessa di così: mentre l’aristocrazia coltiva rigide norme morali, altre classi sociali vivono realtà differenti. Gli attori itineranti, i namsadang, portavano con sé “ragazzi belli” che attiravano i nobili rurali anche nei periodi più conservatori di Joseon. E nelle poesie popolari, nei canti e negli scritti della gente comune, si trovano momenti in cui l’amore tra persone dello stesso sesso affiora con naturalezza. Sono tasselli, certo, ma insieme costruiscono un quadro chiaro: la Corea non è mai stata immune all’omosessualità. È semplicemente una storia che, per tante ragioni, è stata dimenticata, nascosta o schiacciata da valori che mettevano la famiglia patriarcale e la continuità genealogica al centro.
Confucianesimo, famiglie verticali e il peso della tradizione
Per capire perché la Corea moderna fatichi ancora così tanto ad accettare l’omosessualità, bisogna entrare dentro il modello culturale che l’ha plasmata per secoli. La struttura confuciana, con la sua insistenza sulle relazioni verticali, il re sopra i cortigiani, il padre sopra il figlio, il marito sopra la moglie , ha consolidato la centralità della famiglia e della procreazione. In questa cornice, l’omosessualità viene percepita come un disturbo dell’armonia sociale, perché spezza la linea familiare e interrompe il flusso generazionale.
Anche una parte del pensiero sciamanico coreano ha contribuito a rafforzare questa percezione, interpretando chi non ha interesse per la procreazione come qualcuno “distante” dai valori comunitari. È da qui che nasce l’idea, ancora oggi molto radicata, che l’orientamento sessuale debba essere collegato alla continuità familiare, più che all’identità personale o al desiderio individuale. Per secoli, insomma, l’orientamento sessuale non è stato considerato una questione intima, ma un tassello della grande macchina sociale della famiglia.
La frattura del Novecento: militarizzazione, autoritarismo e silenzi
Dopo la guerra di Corea, il Paese entra in una lunga stagione di governi autoritari. La società ruota intorno a un unico grande obiettivo: sopravvivere, ricostruire, proteggersi dal nemico del Nord. La disciplina militare si trasforma in disciplina sociale, e tutto ciò che esce dalla norma, compresi i diritti delle minoranze sessuali, viene schiacciato.
Chiunque venisse considerato “deviante”, omosessuali compresi, rischiava arresti, punizioni, espulsioni dal lavoro. Il clima politico era così opprimente che perfino le università, spesso il luogo naturale dei movimenti progressisti, vennero messe a tacere. La democratizzazione degli anni ’90 ha cambiato molte cose, ma non ha cancellato l’impronta lasciata da decenni di repressione. Ancora oggi, molti coreani percepiscono l’omosessualità come “non coreana” proprio perché per anni è stata rappresentata così dal potere.
In questo contesto, il servizio militare obbligatorio ha creato ulteriori barriere: chi dichiarava tendenze omosessuali veniva considerato “mentalmente inabile”, con tutte le conseguenze sociali del caso. Un uomo che non presta servizio militare perde credibilità lavorativa, rispetto sociale e possibilità di avanzamento: una pressione enorme che ha costretto generazioni di giovani a nascondersi.
Il nodo del “coming out”: quando una cultura non ha le stesse parole
Uno dei punti più delicati riguarda un concetto che in Occidente consideriamo naturale: il coming out. Il coming out, però, è un processo profondamente individualista, nato in società che mettono l’identità personale al centro. In Corea, dove l’identità è ancora legata alla famiglia, alla collettività e all’armonia del gruppo, dichiarare la propria omosessualità diventa un gesto traumatico non solo per chi lo compie, ma per tutto il nucleo familiare. Non esiste una tradizione culturale che supporti un gesto simile. E così, chi prova a farlo si scontra con tre rischi:
- una possibile rottura completa con la famiglia
- la percezione di “tradire” la continuità genealogica
- il rafforzarsi del pregiudizio secondo cui l’omosessualità è qualcosa di esterno, importato, non coreano
Non sorprende che negli anni ’90 sia esploso un mito terribile: l’idea che l’AIDS fosse una “malattia dei gay”. Una narrativa che ha fatto danni enormi e ha isolato ancora di più chi già faticava a trovare un linguaggio per raccontarsi.
La vita nascosta: internet come casa, contatti, resistenza
Quando la società non offre spazi, le persone li creano. E in Corea, la vera rivoluzione silenziosa dell’LGBT community è nata online. Chat, forum, portali dedicati, video chat, spazi anonimi: internet ha offerto ciò che la vita pubblica negava. Un luogo in cui scoprire se stessi, capire la propria identità, incontrare altri uomini e donne con cui condividere esperienze, amore, relazioni. Uno spazio non giudicante in cui “essere” senza esporsi in pubblico.
Questa cultura digitale ha permesso la nascita di una vera e propria sottocultura gay, fatta di comunità, reti di supporto, nuovi modi di vivere il desiderio. E ha aperto nuove porte anche nella società offline: quartieri come Itaewon, conosciuto colloquialmente come “Homo Hill”, sono diventati luoghi simbolici, spazi di respiro in cui sentirsi meno soli in un Paese ancora molto cauto.
Le “contract marriages”: una risposta coreana a una ferita culturale
Uno degli aspetti più unici della realtà coreana riguarda i cosiddetti “contract marriages”: matrimoni fittizi tra gay e lesbiche, costruiti per soddisfare le aspettative familiari senza rinunciare alla propria vita privata. Funziona così: due persone non eterosessuali si accordano per sposarsi, presentarsi alle famiglie, vivere come una coppia normale quando serve, compleanni, funerali, cene rituali, festività, ma mantenere le proprie relazioni reali altrove. È una soluzione sofferta, ma spesso percepita come l’unica possibile per non distruggere l’armonia familiare.
Allo stesso tempo, questo tipo di matrimonio finisce per rafforzare, paradossalmente, l’idea che l’istituzione familiare debba essere salvaguardata a prescindere dal costo personale. È un tassello doloroso ma importante per capire come la Corea mostri, ancora una volta, un modo tutto suo di negoziare identità, aspettative e desiderio.
Volti visibili: il coraggio di chi ha sfidato il silenzio
In un Paese in cui il coming out non ha tradizione, chi ha scelto di esporsi lo ha fatto pagandone il prezzo. Un esempio è quello di Hong Seok-chon, il primo volto noto coreano a fare coming out pubblicamente, nel 2000. La sua carriera televisiva si è fermata all’istante. Ha dovuto affrontare discriminazioni, insulti, isolamento. Eppure, anni dopo, avrebbe raccontato di non essersi pentito: ha costruito una nuova vita, ha aperto ristoranti, ha trovato una forma diversa di libertà.
Harisu, la prima celebrità transgender coreana, è stata accolta in modo ambiguo: inizialmente osteggiata, poi lentamente accettata. La sua storia è un frammento essenziale per comprendere come la società coreana reagisca in modo differenziato a seconda delle narrazioni: essere “nata nel corpo sbagliato” è percepito diversamente da “amare qualcuno del proprio sesso”. Sono dinamiche sottili, complesse, rivelatrici.
Il presente: diritti, limiti, contraddizioni
Oggi, il quadro dei diritti LGBT in Corea è una costellazione di luci e ombre. Da un lato, la possibilità per le persone transgender di modificare i documenti dopo l’intervento. La presenza di reti di attivismo che combattono contro discriminazioni basate sull’orientamento sessuale. La disponibilità, in alcuni settori, a includere tutele e prevenire abusi. Dall’altro, persistono limiti forti:
- nelle forze armate le relazioni omosessuali tra soldati sono punite come reati
- esiste ancora paura negli ambienti scolastici quando si parla di studenti LGBTQ+
- il matrimonio egualitario non è riconosciuto
- termini dispregiativi sono ancora usati quotidianamente
- la pressione sociale resta altissima
Eppure il percorso non è immobile. Negli anni ’90 sono nati gruppi organizzati, movimenti, alleanze che hanno iniziato ad aprire crepe nel muro della stigmatizzazione. Nonostante le difficoltà, i cambiamenti esistono.
Una conclusione personale: l’omosessualità è sempre stata qui
Scrivendo questo articolo, e ripercorrendo un filo che parte dai re di Silla, attraversa le poesie dei hwarang, passa per gli attori itineranti di Joseon e arriva fino agli studenti che oggi cercano risposte online, mi rendo conto di una cosa semplice e potente: l’omosessualità non è mai stata estranea alla Corea. È parte della sua storia, delle sue tradizioni, delle sue voci più antiche e di quelle più moderne. È stata vissuta, amata, taciuta, celebrata, punita, rappresentata e riscoperta in modi sempre diversi.
L’idea che sia un’“importazione occidentale” è un racconto rassicurante per chi vuole evitare di affrontare il passato. Ma la verità è che la Corea ha avuto dongseongaejadul, “amanti dello stesso sesso”, molto prima di avere Itaewon. E forse è questo il punto da cui si deve ripartire: dalla consapevolezza che ciò che oggi si fatica ad accettare non è un corpo estraneo, ma una radice sepolta sotto secoli di silenzi. Raccontare questa storia è un modo per restituire complessità, rispetto e dignità a una realtà che merita di essere vista per quello che è: profondamente, completamente e innegabilmente coreana.
Fonti:
- https://gwangjunewsgic.com/arts-culture/korean-myths/behind-the-myth-are-gay-koreans-products-of-western-culture/
- http://www.inquiriesjournal.com/articles/1241/korean-lgbt-trial-error-and-success
- https://en.wikipedia.org/wiki/LGBTQ_history_in_South_Korea

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